
🎓 Tribunale Verbania – Sezione Civile – Sentenza n. 273 del 4 agosto 2025
La falsa notizia della morte di una persona costituisce diffusione illecita di dati sullo stato di salute e, quindi, può integrare una violazione del Codice sulla privacy?
La causa sulla quale il Tribunale di Verbania si è pronunciato con la sentenza n. 273 del 4 agosto 2025, è stata promossa da un giocatore di pallacanestro professionista e dai suoi genitori nei confronti della società editrice del sito online di una testata giornalistica.
Con atto di citazione X e Y hanno convenuto in giudizio Z chiedendo che quest’ultima fosse condannata, a titolo di risarcimento dei danni.
In particolare, X e Y hanno esposto:
- che X era giocatore di pallacanestro noto nell’ambiente del basket non professionistico avendo, nel corso degli anni, militato in diverse squadre di Piemonte e Lombardia nei campionati italiani di serie C – B – A2;
- che, per la stagione agonistica 2021/2022, X aveva concluso un accordo con una società di basket iscritta al campionato di serie B;
- che, dopo una sconfitta nel derby, in data 7 novembre 2021, X turbato anche per problemi personali, a fine partita si era allontanato dal palazzetto e, anziché andare nell’alloggio messo a sua disposizione dalla società, era tornato alla residenza;
- che, nel corso della notte fra l’8 e il 9 novembre 2021, aveva però inviato un messaggio alla madre, avvisandola che sarebbe partito perché non riusciva a dormire, comportamento che, conoscendo la difficile situazione psicologica del figlio, aveva creato preoccupazione nei genitori i quali, attraverso le telecamere di sicurezza della casa, avevano visto che era partito in auto verso le 00:30 caricando un borsone, dei pesi ed una corda;
- che, successivamente, tramite GPS installato sull’auto di X, i genitori avevano verificato che questa era ferma parcheggiata nei pressi di un porto turistico ma, chiamando X più volte sul cellulare, non avevano ottenuto risposta;
- che verso le 3:00 il padre aveva deciso di andare sul posto e aveva trovato la macchina aperta, con all’interno portafoglio, cellulare e il borsone, ma non vi era traccia di X;
- che allarmato per le sorti del figlio, aveva allertato i Carabinieri che già di prima mattina avevano attivato le ricerche anche nella zona di lago di fronte al luogo ove era stata rinvenuta l’auto, senza però trovare nulla;
- che, mentre si trovava in caserma per formalizzare la denuncia di scomparsa, fra le 10:30 e le 11:30 del 9 novembre 2021, il padre aveva ricevuto una telefonata dall’altro figlio, in quel momento in Spagna, che sconvolto gli aveva domandato se fosse vero che il fratello era morto perché sul sito online della testata di cui la società convenuta era editrice e proprietaria, era apparsa la notizia del ritrovamento del cadavere nel lago;
- che la notizia era del seguente tenore “Un cadavere è affiorato questa mattina martedì 9 novembre, sul lago nei pressi di Villa Taranto. Si tratta di classe 1992, nato ad Omegna ma residente a Verbania, molto noto negli ambienti del basket: giocava nel in serie B, dove era tornato quest’estate dopo averci già militato in A2. Il corpo è stato visto da alcuni passanti che hanno dato l’allarme. Sul posto vigili del fuoco, carabinieri e polizia. Sono in corso accertamenti per stabilire le cause della morte”;
- che, dopo aver letto la notizia, i genitori di X si erano precipitati sul luogo delle ricerche convinti di trovarvi la salma del figlio, ma il personale impegnato nelle ricerche aveva riferito loro di non aver trovato alcun cadavere;
- che, come era emerso in seguito, la notizia pubblicata on line dalla convenuta fosse completamente falsa ed inventata, atteso che nessuno aveva segnalato la presenza di un cadavere nel lago, né lo stesso era stato rinvenuto;
- che la notizia della “morte” di X aveva trovato immediata eco su siti di notizie on line locali, nazionali ed esteri, sui siti di sport e di basket, nonché sui social network;
- che la falsa notizia era diventata un “caso”, venendo ripresa sui quotidiani cartacei, nei tg di e Mediaset e sulle testate sportive;
- che le ricerche erano proseguite senza esito, ma il giorno successivo X rientrava a casa, spiegando che si era semplicemente allontanato volontariamente assieme ad un’amica, avendo necessità di riflettere;
- che, a causa del clamore suscitato dall’iniziale (falsa) notizia della sua morte, i riflessi negativi della vicenda avevano avuto effetto anche sul rapporto di collaborazione sportiva, in quanto, dopo poco più di un mese dai fatti sopra descritti, veniva risolto consensualmente il contratto;
- che X ha fortunatamente trovato nuovo ingaggio in un’altra società di Basket, ma a condizioni economiche peggiorative rispetto a quelle ottenute nel precedente contratto;
- che, quindi, a causa della falsa notizia della sua morte colpevolmente diffusa dal sito online della convenuta una situazione privata era stata trasformata in un caso mediatico che aveva leso la reputazione del protagonista, aveva sconvolto di dolore i suoi genitori, aveva violato il diritto alla riservatezza esponendo fatti privati al giudizio della rete internet e, infine, aveva inciso negativamente sulla prosecuzione del rapporto lavorativo.
Per tali ragioni, gli attori chiedevano alla convenuta il risarcimento del danno morale e patrimoniale.
La convenuta, titolare della testata giornalistica in cui era stata diffusa la notizia in questione, si è costituita chiedendo il rigetto delle domande di parte attrice. In particolare, ha dedotto:
- che non era stata convenuta come editore del quotidiano cartaceo, ma quale responsabile del sito, essendo l’articolo in questione apparso solo online su un sito che godeva di una limitata visibilità, proprio per le caratteristiche del lettore tipico dell’edizione cartacea, che aveva un’età medio-alta e che, come tale, era meno propeso alla fruizione di notizie online;
- che a tale scarsa visibilità, per il non elevato numero di accessi, si doveva aggiungere un secondo elemento di cui doveva tenersi conto, ovvero che l’articolo era apparso solo per pochi minuti, esattamente 15, in quanto il direttore, dopo la sua apparizione, ne aveva disposto l’immediata rimozione dal sito, in attesa di ulteriori conferme;
- che, una volta effettuato questo primo intervento, il giornalista autore della notizia aveva presentato ai genitori di X le proprie scuse per dare spazio alla loro voce;
- che le ragioni della risoluzione del contratto non erano da rinvenirsi nell’articolo in questione, ma da una mancanza di fiducia reciproca tra giocatore e allenatore;
- che erano del tutto infondate le domande di condanna al risarcimento del danno per lesione della privacy.
In termini generali, il Tribunale ha premesso che il reato di diffamazione previsto dall’articolo 595 cod. pen. è fattispecie che si perfeziona solo se sussistono due precisi elementi:
- un elemento oggettivo che si integra offendendo l’altrui reputazione comunicando con più persone;
- elemento soggettivo che si identifica necessariamente col dolo non essendo configurabile una diffamazione colposa.
Quanto all’elemento soggettivo la Suprema Corte insegna che se è vero che nei diritti contro l’onore non si richiede il dolo specifico nel senso che non occorre l’animus nocendi, è pur vero che si richiede la prova della consapevolezza e della volontà di arrecare offesa all’altrui patrimonio morale, non potendosi prescindere dal requisito della volontarietà dell’azione e dell’evento (cfr. ex multis, Cass. pen, sez. V, 11 febbraio 1981, n. 847). Il dolo si identifica, quindi, con la volontà libera e cosciente di propalare notizie o informazioni con la consapevolezza della loro attitudine a ledere l’altrui reputazione (Cass. pen., sez. V 28 maggio 1985, n. 5258).
Evidenziato ciò, deve ancora premettersi che in tema di diffamazione, qualora il fatto non sia stato già valutato in sede penale, il giudice civile deve svolgere un accertamento preordinato alla verifica dell’esistenza dei presupposti della responsabilità civile ed in definitiva di un danno risarcibile, presupposti che si possono ravvisare nella consapevole diffusione del fatto lesivo dell’onore e del prestigio del soggetto passivo, nel danno e nel discredito che ne è derivato a quest’ultimo, nella esistenza di un nesso di adeguata causalità tra la condotta e l’evento.
È, altresì, noto che l’esercizio del diritto alla libera manifestazione del pensiero trova fondamento nell’art. 21 della Costituzione e può porsi talvolta in contrasto con la sfera della persona, recando pregiudizio alla sua riservatezza o alla sua reputazione. Il diritto alla libera manifestazione del pensiero, di cui il diritto di cronaca e di critica rappresentano sue declinazioni, è tutelato anche a livello sovranazionale dall’art. 10 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, recepita in Italia con L. n. 848/1955. La libertà di manifestazione del pensiero e del diritto di comunicare, diffondere e pubblicare notizie e opinioni alla generalità dei consociati costituisce un “valore cardine dell’ordinamento democratico” (cfr. Corte Cost. n. 1/1981) e non tollera generalmente restrizioni in quanto “non riguarda solo le informazioni e le opinioni accolte con favore o considerate inoffensive o indifferenti…” ma anche “le informazioni e le opinioni che urtano o inquietano…”, perché ciò è richiesto dal “…pluralismo, dalla tolleranza e dallo spirito di apertura senza i quali non si ha una società democratica” (cfr. Corte Europea Diritti dell’Uomo 8 luglio 1986, c. Ligens).
Al fine di risolvere il conflitto tra le due posizioni, entrambe tutelate dall’ordinamento, la giurisprudenza ha da tempo elaborato una serie di principi, che consentono il giusto bilanciamento degli interessi coinvolti.
In particolare, il diritto alla riservatezza e/o all’integrità della propria reputazione, quali diritti personalissimi, cedono il passo all’interesse generale a conoscere le opinioni e le valutazioni critiche su determinati avvenimenti e comportamenti, purché ricorrano determinate rigorose condizioni. In particolare, con specifico riferimento alla attività giornalistica, affinché la stessa possa legittimamente ricondursi all’esercizio del diritto di cronaca, si richiede:
- che la notizia pubblicata sia oggettivamente vera o che comunque ne sia stata accuratamente accertata e controllata la verità (dimodoché possa essere eventualmente invocata la verità putativa da parte dell’autore): in altri termini, che il contenuto dell’articolo o comunque della pubblicazione corrisponda alla realtà dei fatti e che il giornalista abbia compiuto tutte le ricerche e le indagini necessarie per assicurare tale corrispondenza;
- che vi sia un pubblico interesse alla conoscenza dei fatti stessi, in relazione alla loro rilevanza ed alla loro attitudine a coinvolgere l’intera comunità sociale: il diritto di critica e di cronaca, nella configurazione datane dalla Costituzione, prevede che esso sia assistito da un interesse generale, tale da trascendere quello dei singoli soggetti coinvolti nella vicenda;
- che l’informazione venga mantenuta entro i limiti dell’obiettività informativa e non contenga, quindi, valutazioni o apprezzamenti non continenti o non conformi alla effettiva realtà della vicenda: la notizia deve essere riportata nella sua oggettiva verità, senza coloriture o sottolineature non pertinenti.
In primo luogo, occorre, pertanto, che ricorra la verità della notizia, in termini, perlomeno, di verità putativa, essendo necessario che il giornalista fornisca la dimostrazione dell’involontarietà dell’errore, verificatosi nonostante un controllo – effettuato con ogni cura professionale, da rapportare alla gravità della notizia e all’urgenza di informare il pubblico – della fonte e della attendibilità di essa.
Costituisce, invero, principio di diritto consolidato, quello secondo cui “In tema di responsabilità civile per diffamazione, se il legittimo esercizio del diritto di cronaca esonera il giornalista dall’obbligo di verificare l’attendibilità della fonte informativa nel caso in cui questa provenga dall’autorità investigativa o giudiziaria, l’applicabilità della esimente del diritto di cronaca, quantomeno putativa, gli impone di verificare in modo completo e specifico, mediante un necessario aggiornamento temporale, la veridicità della notizia al momento della sua divulgazione” (Cass., ord. 12 ottobre 2020, n. 21969).
Pertanto, secondo la giurisprudenza di legittimità, nessuna incidenza è attribuibile all’affidamento, anche in buona fede, maturato nei confronti della fonte in sé, occorrendo comunque, da parte di chi intende diffondere, verificare attentamente l’inconsistenza di ogni dubbio (Cass. pen., sez. V, 11 marzo 2005, n. 15643, secondo cui “è configurabile la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto l’onere di esaminare, controllare e verificare la notizia, in modo da superare ogni dubbio, non essendo, a tal fine, sufficiente l’affidamento ritenuto in buona fede sulla fonte“; Cass. pen., sez. 5, 13 luglio 2010 n. 27106 inequivocamente afferma: “La scriminante putativa del diritto di cronaca giudiziaria può essere invocata in caso di affidamento del giornalista su quanto riferito dalle sue fonti informative, non solo se abbia provveduto comunque a verificare i fatti narrati, ma abbia altresì offerto la prova della cura posta negli accertamenti svolti per stabilire la veridicità dei fatti“; Cass. pen., sez. V, 13 novembre 2017, n. 51619, che ribadisce che la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca “è configurabile solo quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare l’oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio“; Cass. pen., sez. V, 10 ottobre 2018, n. 45813, che conferma che per godere dell’esimente del diritto di cronaca giudiziaria in relazione alla fattispecie penale della diffamazione a mezzo stampa “il giornalista deve esaminare e controllare attentamente la notizia in modo da superare ogni dubbio, non essendo sufficiente in proposito l’affidamento in buona fede sulla fonte informativa“; vedi, altresì, Cass. pen., sez. V, 4 novembre 2019, n. 50189; Cass. pen., sez. I, 27 settembre 2013 n. 40930 e Cass. pen., sez. V, 18 aprile 2019, n. 21145).
A questo consolidato insegnamento della Suprema Corte penale è coerentemente sintonica anche l’interpretazione nomofilattica civile, la quale ha, infatti, sempre affermato che, per godere dell’esimente anche putativa del diritto di cronaca, occorre che la notizia sia “frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca“, vale a dire che il giornalista “l’abbia accuratamente verificata” (così, Cass., sez. III, 8 febbraio 2007, n. 2751; Cass., sez. III, 16 maggio 2007, n. 11259; Cass, sez. III, 20 ottobre 2009, n 22190 e Cass., sez. III, 4 settembre 2012 n. 14822).
Nella specie, il fatto storico riportato nella notizia diffusa sul sito della convenuta è risultato del tutto inventato, posto che non era morto e nessun cadavere era stato rinvenuto nel lago. Al momento della diffusione della notizia non sussisteva neanche la verità putativa della stessa, in quanto la convenuta non ha fornito alcuna prova in merito all’attività di verifica svolta dal giornalista per accertare la sua attendibilità e non ha neppure indicato la fonte da cui l’asserita notizia era stata appresa.
Secondo il Tribunale, difetta, pertanto, una delle condizioni necessarie per il legittimo esercizio del diritto di cronaca, la cui mancanza non giustifica una prevalenza della libertà di manifestazione del pensiero sul diritto all’onere e alla reputazione del singolo.
Posto ciò, il Tribunale non ha ritenuto che nel caso di specie la condotta della convenuta integrasse la fattispecie penale di diffamazione, in quanto non si ravvisa, in concreto, una lesione del bene giuridico dell’onore.
Com’è noto, la tutela dell’onore personale trova fondamento negli artt. 2 e 3 della Costituzione, i quali danno copertura a tutti i diritti inviolabili dell’uomo, inteso sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali si esplica la sua personalità, i quali costituiscono patrimonio irretrattabile della persona umana e sono funzionali a garantirne il pieno sviluppo. In particolare, l’onore è la valutazione interna che ciascuno dà di sé, della propria dignità e del proprio valore, ed è comprensivo del decoro, ossia del comportamento e dell’immagine che un individuo proietta nel mondo esterno a sé, e della reputazione, ossia della percezione che la società ha dell’onore e del decoro di una persona in base al comportamento dalla stessa tenuto (cfr. Corte cost. n. 86/1974). Lo stesso assume, pertanto, sia una connotazione oggettiva coincidente con la stima della quale l’individuo gode nella comunità in cui vive e opera, sia una connotazione soggettiva intesa come il sentimento di ciascuno della propria dignità morale e della somma di qualità che ciascuno attribuisce a sestesso.
Ad avviso della Suprema Corte, l’onore, protetto dalla norma incriminatrice quale esplicazione della propria personalità “morale”, racchiude, quindi, in sé una duplice nozione: in senso soggettivo si identifica col sentimento che ciascuno ha della propria dignità “morale” e designa quella somma di valori che l’individuo attribuisce a se stesso (onore in senso stretto); in senso oggettivo è la stima o l’opinione che gli altri hanno di noi, rappresenta cioè il patrimonio morale che deriva dall’altrui considerazione ed è anche definita come reputazione.
Inoltre, il soggetto danneggiato, a seguito della condotta diffamatoria, deve trovarsi in una situazione in cui la “considerazione che di questi hanno le persone con cui interagisce sia diminuita, al punto da potersi dire lesi la sua reputazione e il suo onore (Cass. n. 8397/2016): quest’ultimi da valutare “in abstracto”, cioè per come formatisi nella comune coscienza sociale di un determinato momento, e non “quam suis”, cioè in base alla considerazione che ciascuno ha del danneggiato” (cfr., all’uopo, Cass. 10 maggio 2001, n. 6507)”.
Posto ciò, il Tribunale ha ritenuto che la notizia, pur se inveritiera, non presentasse, altresì, un contenuto diffamatorio. Nell’articolo non è stato, infatti, scritto che si era trattato di un suicidio, né erano stati forniti dettagli da cui si sarebbe stato potuto desumere che il ragazzo si fosse tolto la vita.
L’incertezza che trapela dal brano sul motivo del decesso è corroborata dalla circostanza che era stato, altresì, specificato che erano ancora in corso accertamenti sulla causa della morte.
Nel testo, non era stato neanche specificato che si era allontanato la sera prima dalla propria abitazione senza lasciare tracce, particolare che avrebbe potuto suggerire l’intento dello stesso di porre fine alla propria vita.
L’informazione di una morte di natura suicidaria non può, quindi, essere ricavata dal significato letterale del testo, ma avrebbe potuto soltanto essere il frutto di una libera interpretazione della vicenda da parte del singolo lettore. Inoltre, il tragico evento non è stato descritto con modalità ingiuriose tali da gettare discredito sulla figura del presunto suicida.
Infine, il Tribunale ha osservato che l’attore non ha fornito alcuna prova del danno, ovvero dell’incidenza che ha avuto la condotta della convenuta sulla considerazione che del mediamo hanno le persone con le quali interagisce.
Alla luce di tali considerazioni, deve escludersi che la diffusione della notizia integri il reato di diffamazione, essendo priva dell’attitudine a ledere l’onore e la reputazione dell’attore.
La condotta della convenuta, secondo il Tribunale, non può essere sussunta neanche nel reato di cui all’art. 528 cod. pen. invocato dagli attori, in quanto la descrizione del fatto non è stata svolta aggiungendo particolari impressionanti o raccapriccianti tali da sconvolgere la sensibilità della collettività. Parimenti non sussistono gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 656 c.p., non essendo la notizia del ritrovamento di un cadavere idonea a turbare l’ordine pubblico. Il comportamento tenuto da non è, quindi, inquadrabile in una fattispecie penalmente rilevante.
Sul piano civilistico, gli attori hanno dedotto che la falsa notizia della morte di una persona costituisce diffusione illecita di dati sullo stato di salute e, quindi, una violazione del Codice sulla privacy. Nella specie, non si ravvisa alcun trattamento illecito dei dati personali non essendo stati divulgati dati sensibili e non rappresentando la notizia della morte di per sé un dato personale.
Gli attori, inoltre, lamentano la violazione del diritto alla riservatezza, in quanto, a causa della notizia infondata, erano stati propalati fatti e situazioni che dovevano rimanere nella sua sfera, esponendolo al giudizio della rete. Al riguardo, il Tribunale ha osservato che la diffusione della falsa notizia della morte di X ha rappresentato il fattore che ha consentito alla collettiva di venire a conoscenza dell’effettiva scomparsa di quest’ultimo e di generare, così, l’attenzione del pubblico sulla vicenda che, altrimenti, sarebbe probabilmente rimasta privata. Inoltre, in relazione a tale evento non sussisteva un interesse pubblico alla diffusione della notizia da ritenersi prevalente rispetto al diritto alla riservatezza dell’attore, anche considerato il grado non elevato di notorietà di quest’ultimo.
Sulla base di tali considerazioni, il Tribunale ha riconosciuto in capo alla parte attrice un danno non patrimoniale per la lesione del suo diritto alla riservatezza da determinarsi, in assenza di parametri legislativi di riferimento, nella misura equitativa pari a euro 5.000,00. La condotta, pur se violativa della sfera privata e personale, è stata ritenuta dal Tribunale non connotata da particolare gravità, posto che il fatto storico dell’allontanamento volontario è realmente accaduto, sicché l’attore non può dolersi di aver ricevuto dei commenti negativi sui social network in conseguenza del comportamento tenuto.
Tuttavia, la responsabilità della convenuta per tale danno risarcibile non è stata esclusa dal giudice sulla base delle deduzioni della convenuta stessa, secondo cui il video è rimasto online per soli quindici minuti ed è stato visualizzato da un numero esiguo di utenti. Il lasso temporale di quindici minuti, non breve nella comunicazione digitale caratterizzata da una rapida diffusività delle informazioni, è smentito dalla documentazione prodotta dalla convenuta stessa. L’articolo sarebbe in realtà rimasto online per un tempo sufficiente a consentire ad altre testate giornalistiche di riproporre la notizia e favorirne la sua diffusione. Parimenti, il numero di 651 visualizzazione non è esiguo ed è risultato in concreto idoneo a diffondere la notizia, come dimostrano gli articoli apparsi in seguito su altri siti d’informazione.
Il Tribunale, invece, ha ritenuto non meritevole di risarcimento il danno patrimoniale invocato con riferimento alla risoluzione anticipata del contratto con la società sportiva, poiché è rimasto indimostrato il nesso di derivazione causale tra la condotta della convenuta e il danno patrimoniale lamentato.